venerdì 13 novembre 2009

Il triplo biennio


Tutti i giornali oggi riportano con clamore la notizia del progetto di legge d’iniziativa parlamentare presentato ieri al Senato della Repubblica, dal titolo “Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’art. 111 della Costituzione e dell’art. 6 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo”, per introdurre nel nostro ordinamento quello che è già stato battezzato “processo breve”.
Si è scatenato un putiferio, poiché – da parte dell’opposizione – si è gridato alla legge ad personam, avente lo scopo precipuo di sottrarre il Presidente del Consiglio a taluni processi già sospesi (e magari ad altri, non ancora annunciati, ma di cui si spettegola).
La lettura del testo del progetto legislativo mi ha indotto a riflessioni ampie.
Anzitutto, dubito dell’efficacia tecnica di una simile misura, destinata ad applicarsi sia alla giustizia penale, sia alla Cenerentola giustizia civile, quella che conosco meglio: che senso ha la regola del triplice biennio nei confronti di cause civili per le quali – faccio un solo esempio – alla Corte d’Appello di Milano le udienze di precisazione delle conclusioni (l’anticamera della sentenza) vengono già fissate al 2013 per impugnazioni nate magari da anni? Che senso ha questa regola per certi Uffici Giudiziari, come quelli delle nostre zone, dove le Cancellerie funzionano ad intermittenza e spesso sono del tutto chiuse?
Non mi addentro nelle conseguenze sui processi penali, i cui meccanismi mi sfuggono; credo, però, da modesto conoscitore delle norme, che se il problema è politico, oltre che dell’amministrazione della giustizia, si debba avere il coraggio di scelte diverse e ben più incisive.
Travolto il c.d. lodo Alfano dalla Corte Costituzionale, con una sentenza per molti versi sorprendente, appare evidente che non solo le più alte cariche dello Stato, ma i rappresentanti del popolo, liberamente eletti (Senatori e Deputati) sono pressoché scoperti nei confronti di iniziative giudiziarie penali eclatanti, che allarmano l’opinione pubblica e danno grande visibilità ai promotori, spesse volte coincidenti con appuntamenti elettorali o molto fumose e destinate, dopo anni, a finire nel nulla.
Molti parlano di rischio per la democrazia, vedendo minacce nelle iniziative legislative dell’attuale maggioranza di governo; a mio sommesso parere, questo rischio le nostre istituzioni parlamentari lo corrono già da troppo tempo, da quando, sulla spinta di una suggestiva ed emotiva reazione popolare (suggestionata da manette à gogo), le Camere nel 1993 riformarono l’art. 68 della Costituzione (le immunità parlamentari), sicché oggi non è più richiesta autorizzazione per condurre un'indagine nei confronti di un parlamentare.
L’Assemblea Costituente
, sulla scorta dell’esperienza giuridica secolare di pressoché tutte le Costituzioni e, soprattutto, nella consapevolezza di introdurre un sistema ordinamentale equilibrato, in cui nessuno dei poteri dello Stato potesse prevalere sugli altri, fu di diverso avviso: la memoria del recente passato fascista, che aveva ridotto a nulla le garanzie a presidio della libertà dei rappresentanti eletti dai cittadini era ancora troppo fresca.
La mia opinione coincide con quella originaria dei Padri Costituenti: è necessario tutelare, dal punto di vista della separazione dei poteri, l'indipendenza del Parlamento e dei singoli deputati, garantendo a costoro la possibilità di evitare di subire procedimenti dal carattere obiettivamente persecutorio.
Mi pare che i tempi siano maturi per il ritorno alla versione originaria dell’art. 68 della Costituzione, che opportunamente condizionava all'autorizzazione della Camera di appartenenza la sottoposizione del parlamentare al procedimento penale: norma quanto mai democratica e presidio di democrazia, in un’epoca in cui non è raro imbattersi in inquirenti vedettes, molti dei quali si sono poi trovati a sedere negli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama, messisi in aspettativa dalle funzioni giurisdizionali esercitate fino a qualche mese prima (con ciò esacerbando un’opinione popolare sospettosa, che si è estesa istintivamente al coetus dei magistrati – che sono invece normalmente persone di grande equilibrio, rigore e capacità professionale).
Il progetto di legge da cui siamo partiti, quindi, mi sembra un fastidioso pannicello caldo, indatto a curare una malattia bisognosa di interventi di ben altra portata.
Capisco lo stato d’animo del Presidente Berlusconi, sottoposto alla forte pressione di un’enorme quantità di indagini nei suoi confronti (quasi che non ci sia altro da inquisire…); gli conservo simpatia e fiducia, anche se so che non ha la bacchetta magica per risolvere i tanti problemi italiani, contingenti e non; incomincio, invece, a diffidare dei suoi consiglieri, che – forse perché troppo dòtti ed attenti solo all’oggi – stanno infilando una serie impressionante di gaffes ed alimentano la diceria che il Capo del Governo si voglia sentire al di sopra delle leggi.
Non è così, per quanto io possa valutare; il problema, come detto, è più vasto e riguarda l’intero sistema italiano, non una sola persona, simpatica o antipatica che sia.
Di certo, la soluzione non sta nello scardinamento dei principi fondamentali del diritto, ma nel ritorno allo spirito originario della Costituzione, alla versione originale dell’art. 68 della Carta, alla prudenza ed alla lungimiranza dei Costituenti che a larghissima maggioranza affermarono la necessità dell’immunità parlamentare.

I triplici bienni, con l’inutile richiamo all’art. 111 della Costituzione e l'immancabile citazione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, creano più rogne che vantaggi, più divisioni che consensi.

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