venerdì 10 febbraio 2012

Esodo e foibe: perché farne memoria


Ricordo ancora quando, nel morente agosto del 1999, insieme a mia moglie ed ai miei figli, ci spingemmo sull'altopiano carsico, sopra Trieste, alla ricerca del monumento alle foibe di Basovizza, che solo nel 1992, dopo un iter amministrativo defatigante, erano state dichiarate monumento nazionale; solo nel 1991 Francesco Cossiga, Capo dello Stato, vi si recò ufficialmente: fu il primo Presidente della Repubblica, oltre 40 anni dalla tragedia che colpì gli Italiani di Trieste, della Venezia Giulia, dell'Istria, della Dalmazia e del Quarnaro.
Il luogo è di una bellezza struggente, un immenso prato, interrotto da rocce e macchie di conifere, battuto dal vento, che porta il profumo del mare vicino. Un sito solitario ed austero, sospeso tra terra e cielo, silenzioso e quasi lunare, dove l'unica voce è quella del vento, che pare salire dalle profondità della pietra, nei cui anfratti riposti migliaia di Italiani - proprio perché Italiani - erano stati gettati, tra di loro legati, molti ancora vivi, dall'odio etnico e politico del trionfante comunista Tito.
Il vento come sussurro di labili gole, d'invocazioni d'aiuto, di sofferenza atroce, di terrore del buio che avrebbe coperto un'umanità disconosciuta, soppressa e negata.
Sostammo commossi, increduli di tanto livore; il ricordo e la preghiera deboli consolazioni per una sorte così dura e difficile, come quella dei 350.000 Italiani costretti all'esodo, una biblica fiumana di famiglie allontanate dalla propria casa natia, dal focolare secolare, dai propri campanili e cimiteri; la rottura irreparabile di un legame, come cordone ombelicale, oltretutto con l'amarezza di vedersi accolti con ostilità e malamente da altri Italiani, smaniosi di dimostrare la loro adesione al comunismo di Tito e di Stalin, sol dell'avvenire.
Perché, dunque, ricordare foibe ed esodo? Non certo per rinfocolare polemiche e revanscismi, ma per un senso di  pietas verso questi nostri fratelli sfortunati e tormentati, che hanno preso su di sé - innocenti - il peso di una guerra perduta e di una dittatura durata fin troppo.
Se i morti non hanno colore, di pelle o politico, è però necessario - nel ricordo, nella memoria - mantenersi stretti alla verità e rammentare bene chi, come, dove, quando e perché ha voluto perseguitare; non basta deprecare «le derive nazionalistiche europee», come si è limitato l'attuale Presidente della Repubblica; il nazionalismo, in questa vicenda, ha giocato il suo ruolo, sovrastato però da una spinta propulsiva politica che aveva ed ha un nome: comunismo; il nostro linguaggio dev'essere chiaro e semplice, per essere vero: come quando ricordiamo con orrore che la shoah è opera del nazifascismo.
La memoria appannata e nebulosa non serve a nulla e può divenire offensiva nella selettività ipocrita.
Di certo non è istruttiva ed educativa; la condanna delle atrocità dev'essere incondizionata, non parziale; altrimenti, la storia non ci ha insegnato nulla.
Riposino in pace.

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