martedì 5 luglio 2011

Cammei (1): i papaveri della Verna


Di ritorno da San Sepolcro, aretina ai confini con l’Umbria, l’Emilia Romagna e le Marche, una voluta digressione mi condotto alla Verna, sacro luogo dove San Francesco ricevette le stigmate.
Salita  una strada sinuosa e solinga, tra sterminate quercete e abetaie, il complesso monastico spunta a sorpresa nel bosco: edifici di pietra rustica, corridoi labirintici tra ombrosi chiostrini, in un provvisorio percorso per i restauri in corso, mi reco dapprima alla cappella dove il Santo raccolse il Segno divino nella sua carne; silenzio, timido sussurro di orazioni; poi la cappellina di Sant’Antonio da Padova, il vertiginoso balcone a scalinata rivolto all’infinito paesaggio collinare così leonardesco e all’orrido dell’abisso, dove il diavolo rapì e gettò invano San Francesco; il suo “letto” scavato nella roccia d’una grotta.
Lascio per ultimo il Santuario, bella fabbrica ad una navata, in parte circondato da un portico, dove sosto tra le reliquie – il saio del Santo, il suo cordone, il suo bastone – e guardo le grandi ceramiche dei Della Robbia, di una bellezza sublime: i volti di Maria e dell’Angelo dell’annuncio hanno un profilo senza tempo, figure trasfigurate dalla mano d’artista e convertite nel bello assoluto. Anche nella cappella del Ss. Sacramento sorprendenti opere dei Della Robbia, policrome, decorate da allegri festoni di frutta e fiori, simbologia pagana che qui si piega alla storia sacra.
Finalmente, esco e mi siedo sotto il portico, su una panchetta, abbagliato dal lastricato perfetto della notevole piazza digradante davanti al Santuario, ideale terrazza che mette in comunicazione la terra e il cielo, da cui lo sguardo si perde in un orizzonte che sembra non avere fine.
L’occhio corre interessato alle lapidi che raccontano la devozione dei grandi e dei piccoli per San Francesco, parole scolpite in elegante latino, che leggo cercando di immaginare con quale fatica si giungesse colà nei secoli scorsi.
Ma poi, in questa distesa di pietra, lavorata da mani sapienti e così ben mantenuta, in questa monocromia delle tonalità d’un grigio quasi ossessivo, riflesso pure nel bigio del cielo, mi avvedo di un piccolo gruppo di papaveri, come raccolti in un agreste, semplice mazzetto, che spunta vigoroso tra i sassi ai piedi di un pilastro del portico: il rosso acceso dei fiori, con il verde brillante del suo fogliame, spicca come una lama di luce nella notte più buia.
Fiori spontanei,  trionfo della natura in un posto mistico, ordinato e perfetto:  indugio a pensare quanto sarebbero stati graditi a San Francesco, che nella natura, appunto, vedeva la manifestazione panica della Creazione: nei fiori di campo, come negli animali, lui che sapeva parlare agli uccelli ed ammansiva il lupo, che cantava come sorelle l’acqua , la luna e la terra, insieme al fratello sole.
Papaveri di porpora: nessuna mano ha tessuto una livrea così bella; petali fragili, umili e leggeri.
Mi hanno fatto vivere, nel lento soffiare del vento, nell’atmosfera silenziosa, un momento di rara poesia, di mente rivolta verso l’alto: l’emozione di me pellegrino fortùito nel romitaggio di Francesco, che continua a parlare e a sedurre, anche attraverso effimeri fiori rossi, nel grigio apparente della vita.

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