sabato 13 novembre 2010

Gli Statisti



Qualche giorno fa, il 9 novembre, ricorreva il 40° anniversario della dipartita del Generale Charles De Gaulle, Presidente della Repubblica Francese, promotore della liberazione dai nazisti, fondatore della V Repubblica.
Personaggio di statura elevatissima (non solo fisica), è stato protagonista della storia del suo paese, per il quale provava un amore sconfinato: della Francia aveva una visione quasi mistica, spirituale, erede di una tradizione di grandeur che ha spesso inciso profondamente sulla civiltà occidentale.
Al di là delle valutazioni politiche, che sono necessariamente opinabili, è stato un vero statista, che ha saputo governare con polso fermo anche nei momenti più bui e disperati.
Nell 1968, scoppiato il c.d. maggio francese, il 30, dopo sommosse, tumulti ed uno sciopero generale che aveva paralizzato Parigi e la Francia, De Gaulle rivolse un appassionato discorso ai suoi concittadini, in cui dichiarò lo scioglimento dell’Assemblée Nationale e l’indizione di elezioni, da cui ottenne una rinnovata, forte maggioranza; ascoltai alla radio il suo intervento, un’allocuzione grandiosa e solenne, con le parole scandite lentamente, in cui il suo smisurato orgoglio per la France ebbe il sopravvento su tutto e convinse i francesi a rientrare nei ranghi pour la patrie.
De Gaulle si confrontò, dopo la seconda guerra mondiale, con altri grandi statisti, come Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer; seppur diviso da loro da una visione meno entusiastica dell’aspirazione all’Europa Unita, ne condivise serietà, senso dello Stato, responsabilità, disinteresse, fede cristiana, consapevolezza della civiltà europea.
Correndo ai giorni nostri, provo una nostalgia sincera per questi uomini grandi, veri giganti a cospetto dei nani politici che oggi vanno per la maggiore e che si limitano a navigare a vista, mentre quelli sapevano affrontare e sfidare il mare aperto.
Possibile che – nella nostra Italia – si debba mestamente considerare irripetibile la stagione dell’Assemblea Costituente del 1946-1947? Anche allora gli schieramenti erano forti ed alternativi, le passioni politiche esacerbate, le divisioni profonde – soprattutto per motivi internazionali. Eppure, i Costituenti seppero tramandare agli Italiani la Costituzione che ancora ci regge, oggi forse bisognosa di qualche aggiornamento, ma non certo nel suo titolo I.
Nel 1947, con il concorso di democristiani, comunisti, qualunquisti, monarchici, gran parte dei liberali, fu approvato con 350 voti contro 149 (socialisti, azionisti, parte dei liberali) l’art. 7 della Costituzione, che riguarda i rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica e richiama i Patti Lateranensi: fu un punto fermo, in un momento di gravi contrasti, per assicurare la pace religiosa, per la quale, intelligentemente, anche i comunisti si adattarono ad un compromesso istituzionale, che non consegnò l’Italia – come taluni urlarono – allo strapotere della Santa Sede.
Infatti, con lungimiranza, quei Costituenti riconobbero onestamente e coraggiosamente la realtà, cioè il profondo radicamento della religione nel nostro Paese, nella sua cultura, nella sua identità, ma non crearono uno Stato-Chiesa, poiché la Costituzione stessa, nel suo insieme, assicura la libertà religiosa nell’ambito del principio supremo della laicità, come definito dalla Corte Costituzionale: «il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Allora c’erano degli statisti; oggi, evidentemente, non ne circolano più, posto che da lustri si parla di aggiornare la Costituzione, ma nessuno ci è riuscito, se non a ridicoli colpi di risicatissima maggioranza.
Mancanza di volontà o incapacità?
Propendo per la seconda ipotesi; il bipolarismo ha distrutto ogni dialogo e sterminato ogni potenziale statista, ridotta la politica a personalismi ed a pettegolezzi revanchistes.

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