sabato 13 febbraio 2010

Da Vittorio Emanuele II a Giorgio Napolitano


"Per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c'è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell'Europa e nel mondo d'oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell'Italia unita. Tutte le tensioni, le spinte divisive e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate e vanno affrontate con il necessario coraggio".
Così il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel corso della Conferenza, dal titolo "Verso il 150° dell'Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso", con cui l'Accademia dei Lincei, a Classi Riunite, ha aperto le celebrazioni dell'Unità d'Italia.
Come non essere d’accordo?
Da Vittorio Emanuele II a Giorgio Napolitano un nastro tricolore lungo centocinquant’anni unisce le generazioni di Italiani, che nel corso di un secolo e mezzo e di alternanti fortune, si sono unite in un popolo unico.
Unico: unico al mondo per le sue caratteristiche peculiari, esito di una tradizione millenaria, di enorme pluralità di identità e di specificità, di propensione all’universalismo – retaggio dell’Impero romano e del messaggio cattolico del Cristianesimo -, di arte, di musica, di letteratura, di scienza, di industria, di amore per il bello, per la fantasia, per la creatività, per il saper vivere.
Unico anche nei difetti, che ci portiamo appresso quasi istintivamente: la furbizia, la faciloneria, il pressapochismo, l’individualismo esasperato, il disordine, il fatalismo, la sottostima di noi stessi e delle nostre capacità, l’esterofilìa, un ingenuo senso di inferiorità, l’arrangiarsi, l’inaffidabilità…
Ma noi Italiani siamo fatti così, nel bene e nel male; in 150 anni ci siamo uniti anche nel carattere.
Un Massimo Taparelli d’Azeglio redivivo oggi, probabilmente, riconoscerebbe che non bisogna più fare gli Italiani; piuttosto, direbbe che occorrere migliorare gli Italiani, renderli più confidenti in sé stessi, più attivi nello spirito civico, locale e nazionale, più desiderosi di consegnare il loro inimitabile patrimonio alle generazioni venture: per questo bisogna guardare avanti con fiducia e tornare a far nascere bambini, perdere il record negativo del più basso tasso demografico al mondo, riorganizzare la società perché sia amichevole con le famiglie.
L’apertura alla vita non è questione di nazionalismo becero o di ricerca di potenza nel numero: è il segno che non siamo e non vogliamo sentirci vecchi, che non ci chiudiamo nel benessere egoista di una società moribonda, che non intendiamo “rischiare di scivolare nell'irrilevanza, nel mondo globalizzato di oggi e di domani”, come ammonisce il Capo dello Stato, il quale rimarca che “l’identità e la funzione nazionale dell'Italia unita possono dispiegarsi solo in questo quadro, solo contribuendo decisamente all'affermarsi di questa prospettiva di sviluppo nuovo e più avanzato dell'integrazione europea”.
"Non c'è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud", conclude a ragione il Presidente della Repubblica: uno sforzo comune, rispettoso delle svariate modalità di essere Italiani, in un pluralismo locale che è la nostra più grande ricchezza, insieme alla convinzione di appartenere ad un grande e generoso popolo unito.

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