sabato 14 novembre 2015

Dalla pietà a una reazione decisa



Nessun fiore, oggi.
Si, è vero, coi fiori si adornano le tombe.
Ma adesso i sepolcri sono ancora vuoti, ci solo solo 120 salme oltraggiate e disperse, che richiedono pietà e destano sgomento prima di essere ricomposte e degnamente riposte.  
Il male è tra di noi
Il puzzo di zolfo si è sostituito al profumo dell'incenso. 
Gli assassini nel nome di un dio inumano come i suoi truci missionari si beano con la falce della morte, seminano strage e terrore. 
Non sono dei folli, non sono fanatici: questa è la loro natura, questa è la loro idea di primitiva società, questa è la loro fede, che richiede sacrifici umani, spargimento di sangue, macellazione rituale. 
Un disegno tragico, brutale, contro cui reagire. 
Il male ha un nome, si chiama Stato Islamico.
Islamico.
Non cristiano, ebraico, buddista, induista, animista. 
Non c'è più tempo, il califfo redivivo dell'islam ha scatenato le truppe, che sono tra di noi e ci colpiscono a tradimento. 
La tolleranza ha prodotto le stragi. 
Adesso basta, non si può inneggiare al dialogo solutorio con chi ci vuole solo sottomettere e capisce soltanto la lingua della guerra. 
“Getterò il terrore nei cuori dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo, colpiteli su tutte le falangi!” (Corano, 8:12).
Siamo in pericolo, ci considerano infedeli da abbattere. 
È l'ora della reazione, ci dobbiamo mobilitare per difendere la nostra sicurezza, la nostra pace, la nostra civiltà, il nostro futuro.
La pietà non basta più.
Questa è la fine per chi, come noi, crede nel Dio della misericordia o, comunque, nella pace, nell'eguaglianza, nella libertà:
“La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l’ignominia che li toccherà in questa vita; nell’altra vita avranno castigo immenso.” (Corano, 5:33).
Li abbiamo già visti all’opera dove hanno preso il potere, senza remore e con cieca violenza, con trista coerenza: taglio di gole, crocifissioni, roghi, lapidazioni, frustate, riduzione a schiavitù, donne e bambine violate, vendute, costrette al matrimonio, conversioni forzate, insigni opere d’arte demolite, chiese e templi abbattuti, comunità disperse e incarcerate.
Noi aderiamo (ma lo sappiamo?) alla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo dell’ONU, che all’art. 18 attesta: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti”.
Ma ciò non è compatibile con l’Islam, la cui contrapposta  Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo, proclamata il 19 settembre 1981 (beffardamente) a Parigi, in proposito dichiara: “Art. 12 - Il diritto alla libertà di pensiero, di fede e di parola -  Ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito. Nessuno infatti ha il diritto di propagandare la menzogna o di diffondere ciò che potrebbe incoraggiare la turpitudine o offendere la Comunità islamica: «Se gli ipocriti, coloro che hanno un morbo nel cuore e coloro che spargono la sedizione non smettono, ti faremo scendere in guerra contro di loro e rimarranno ben poco nelle tue vicinanze. Maledetti! Ovunque li si troverà saranno presi e messi a morte» (Cor., XXXIII:60-61)”.
Non illudiamoci, la differenza è ontologica, insuperabile; tertium non datur.
Oggi ci indigniamo, ma domani torneremo superficialmente alle comodità di una vita sazia e orba, tanto preoccupati di non discriminare, di tollerare, di essere comprensivi, aperti, “moderni”; con ciò negando le nostre radici, la tradizione di secoli che ha dato una fisionomia alla nostra civiltà.
Relativisti d’accatto, con il complesso di colpe non vissute, stiamo perdendo l’identità, che è un diritto per ogni individuo, per ogni comunità, per ogni popolo e che noi stemperiamo, attutiamo in nome di un incoerente rispetto per gli altri, al punto di negare le nostre origini e abitudini.
Ma questi altri, fortemente motivati e coerenti, non hanno rispetto; hanno uno scopo, peraltro definito sacro dalle loro increate scritture, che promettono premi eterni a chi combatte per quella finalità: la sottomissione universale.
Le stragi proseguono: si abbattono aerei, di uccidono giornalisti, si sparge il terrore in una tranquilla serata di novembre.
Fino a quando il “nostro” mondo resisterà?
Gli esempi sono sconfortanti: non dimentichiamo che le più antiche Chiese apostoliche dell’Africa settentrionale, da cui veniva Sant’Agostino, sono state spazzate via in pochi decenni dopo le conquiste islamiche dei secoli VII e VIII: chi se le ricorda?; al giorno d’oggi, i cristiani, dal 10% che erano con Saddam Hussein, sono praticamente spariti dall’Iraq e stanno sparendo dalla Siria, ridotti a profughi; i Copti egiziani, 25% della popolazione all’inizio degli anni ’50, si sono ridotti al 10% in un paese tra l’altro “moderato” e se ne vanno in esilio.
Adesso la minaccia è qui: a Parigi, in Europa; l’8 dicembre inizia il Giubileo a Roma.
Che aspettiamo? Siamo già rassegnati a scomparire?
Potrebbe essere una soluzione, comoda, anestetica…
Tutti sottomessi, senza più i problemi della democrazia, della libertà: omogeneizzati, sterilizzati, verso l’estinzione.
Piangere i morti a Parigi non basta; «un attacco alla pace di tutta l'umanità che richiede una reazione decisa e solidale da parte di tutti noi per contrastare il dilagare dell'odio omicida in tutte le sue forme» (Papa Francesco, tramite il portavoce p. Lombardi).
Urge pensarci.
Seriamente.
Con la consapevolezza di chi siamo, da dove veniamo, di quale futuro vogliamo per i nostri figli, per la nostra Patria, per la nostra civiltà.

È un dovere, anche se costerà.

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