venerdì 13 novembre 2009

Il triplo biennio


Tutti i giornali oggi riportano con clamore la notizia del progetto di legge d’iniziativa parlamentare presentato ieri al Senato della Repubblica, dal titolo “Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’art. 111 della Costituzione e dell’art. 6 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo”, per introdurre nel nostro ordinamento quello che è già stato battezzato “processo breve”.
Si è scatenato un putiferio, poiché – da parte dell’opposizione – si è gridato alla legge ad personam, avente lo scopo precipuo di sottrarre il Presidente del Consiglio a taluni processi già sospesi (e magari ad altri, non ancora annunciati, ma di cui si spettegola).
La lettura del testo del progetto legislativo mi ha indotto a riflessioni ampie.
Anzitutto, dubito dell’efficacia tecnica di una simile misura, destinata ad applicarsi sia alla giustizia penale, sia alla Cenerentola giustizia civile, quella che conosco meglio: che senso ha la regola del triplice biennio nei confronti di cause civili per le quali – faccio un solo esempio – alla Corte d’Appello di Milano le udienze di precisazione delle conclusioni (l’anticamera della sentenza) vengono già fissate al 2013 per impugnazioni nate magari da anni? Che senso ha questa regola per certi Uffici Giudiziari, come quelli delle nostre zone, dove le Cancellerie funzionano ad intermittenza e spesso sono del tutto chiuse?
Non mi addentro nelle conseguenze sui processi penali, i cui meccanismi mi sfuggono; credo, però, da modesto conoscitore delle norme, che se il problema è politico, oltre che dell’amministrazione della giustizia, si debba avere il coraggio di scelte diverse e ben più incisive.
Travolto il c.d. lodo Alfano dalla Corte Costituzionale, con una sentenza per molti versi sorprendente, appare evidente che non solo le più alte cariche dello Stato, ma i rappresentanti del popolo, liberamente eletti (Senatori e Deputati) sono pressoché scoperti nei confronti di iniziative giudiziarie penali eclatanti, che allarmano l’opinione pubblica e danno grande visibilità ai promotori, spesse volte coincidenti con appuntamenti elettorali o molto fumose e destinate, dopo anni, a finire nel nulla.
Molti parlano di rischio per la democrazia, vedendo minacce nelle iniziative legislative dell’attuale maggioranza di governo; a mio sommesso parere, questo rischio le nostre istituzioni parlamentari lo corrono già da troppo tempo, da quando, sulla spinta di una suggestiva ed emotiva reazione popolare (suggestionata da manette à gogo), le Camere nel 1993 riformarono l’art. 68 della Costituzione (le immunità parlamentari), sicché oggi non è più richiesta autorizzazione per condurre un'indagine nei confronti di un parlamentare.
L’Assemblea Costituente
, sulla scorta dell’esperienza giuridica secolare di pressoché tutte le Costituzioni e, soprattutto, nella consapevolezza di introdurre un sistema ordinamentale equilibrato, in cui nessuno dei poteri dello Stato potesse prevalere sugli altri, fu di diverso avviso: la memoria del recente passato fascista, che aveva ridotto a nulla le garanzie a presidio della libertà dei rappresentanti eletti dai cittadini era ancora troppo fresca.
La mia opinione coincide con quella originaria dei Padri Costituenti: è necessario tutelare, dal punto di vista della separazione dei poteri, l'indipendenza del Parlamento e dei singoli deputati, garantendo a costoro la possibilità di evitare di subire procedimenti dal carattere obiettivamente persecutorio.
Mi pare che i tempi siano maturi per il ritorno alla versione originaria dell’art. 68 della Costituzione, che opportunamente condizionava all'autorizzazione della Camera di appartenenza la sottoposizione del parlamentare al procedimento penale: norma quanto mai democratica e presidio di democrazia, in un’epoca in cui non è raro imbattersi in inquirenti vedettes, molti dei quali si sono poi trovati a sedere negli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama, messisi in aspettativa dalle funzioni giurisdizionali esercitate fino a qualche mese prima (con ciò esacerbando un’opinione popolare sospettosa, che si è estesa istintivamente al coetus dei magistrati – che sono invece normalmente persone di grande equilibrio, rigore e capacità professionale).
Il progetto di legge da cui siamo partiti, quindi, mi sembra un fastidioso pannicello caldo, indatto a curare una malattia bisognosa di interventi di ben altra portata.
Capisco lo stato d’animo del Presidente Berlusconi, sottoposto alla forte pressione di un’enorme quantità di indagini nei suoi confronti (quasi che non ci sia altro da inquisire…); gli conservo simpatia e fiducia, anche se so che non ha la bacchetta magica per risolvere i tanti problemi italiani, contingenti e non; incomincio, invece, a diffidare dei suoi consiglieri, che – forse perché troppo dòtti ed attenti solo all’oggi – stanno infilando una serie impressionante di gaffes ed alimentano la diceria che il Capo del Governo si voglia sentire al di sopra delle leggi.
Non è così, per quanto io possa valutare; il problema, come detto, è più vasto e riguarda l’intero sistema italiano, non una sola persona, simpatica o antipatica che sia.
Di certo, la soluzione non sta nello scardinamento dei principi fondamentali del diritto, ma nel ritorno allo spirito originario della Costituzione, alla versione originale dell’art. 68 della Carta, alla prudenza ed alla lungimiranza dei Costituenti che a larghissima maggioranza affermarono la necessità dell’immunità parlamentare.

I triplici bienni, con l’inutile richiamo all’art. 111 della Costituzione e l'immancabile citazione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, creano più rogne che vantaggi, più divisioni che consensi.

martedì 10 novembre 2009

Le crepe


Negli anni Cinquanta, l’Olanda fu salvata da una temibile alluvione perché un ragazzo, con un dito, chiuse provvisoriamente una piccola crepa manifestatasi in una diga, in tempo perché i soccorsi potessero evitare che le acque del mare tracimassero.
Bastò un dito.
Fuor di metafora, anche in politica occorre porre molta attenzione alle cavillature che appaiono sui muri apparentementi solidi ed invincibili: corrono il rischio di estendersi e di ampliarsi, fino ai crolli.
Solo una seria attività di monitoraggio, di ascolto può prevenire; con le ostensioni muscolari, la sordità e le prove di forza si perde di vista la struttura generale.
Colossi dai piedi di argilla?

lunedì 9 novembre 2009

Dal muro di Berlino alla Corte Europea: come gettare il bambino con l’acqua sporca


Vent’anni fa, come oggi, cadeva il muro di Berlino: svolta epocale, fine della divisione della Germania, crollo del comunismo applicato, della guerra fredda, dei blocchi armati contrapposti, della Stasi, della Volkpolizei, del KGB, della Lubjanka, dei gulag, dell’oppressione, dei regimi comunisti del Patto di Varsavia; inizio di un percorso di libertà, per raggiungere la quale oltre 1300 persone erano morte nel tentativo di superare il muro e migliaia e migliaia erano state perseguitate.
Nell’agosto del 1968, l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati delle democrazie socialiste aveva posto fine alla primavera di Praga ed al tentativo di socialismo dal volto umano di Alexander Dubček (mandato in cattività a fare il giardiniere); ho un ricordo personale di quegli eventi: mi trovavo in montagna e con una buona radio captai una stazione cecoslovacca, da cui una giovane ragazza in lacrime urlava in italiano la disperazione sua e dei suoi amici studenti al vedere le strade di Praga piene di carri armati sovietici e chiedeva disperatamente agli occidentali di aiutare il popolo ceco contro l’oppressore. Mi pecorrono ancora i brividi a rievocare quella voce lontana e sconvolta, grido di rottura di un silenzio destinato a durare ancora più di vent’anni, sino alla caduta del muro di Berlino.
Nel 1989 una ventata di speranza e di gioioso senso di libertà percorse l’Europa: forse mai unita davvero come in quei giorni, senza Est e senza Ovest; l’Europa dei popoli, dall’Atlantico agli Urali, vagheggiata da De Gaulle, vogliosi di coesistere pacificamente e di affermare le proprie radici.
Dissoltosi l’apparato comunista (ma non la mentalità), rinacque anche la libertà religiosa, che aveva impavidamente resistito, nei Paesi dell’Est, alle persecuzioni ed alle campagne di ateizzazione forzata; la croce aveva rappresentato in quegli anni bui l’unico vero elemento unificante della cultura europea, che, al di là delle varie denominazioni confessionali, rimaneva cristiana (o comunque di ispirazione cristiana).
Europa terra di libertà, dunque, ma unita da un inossidabile filo conduttore che aveva segnato indelebilmente la sua storia e la sua identità.
L’esperienza – benché dolorosa – è servita a poco; oggi prevale il relativismo, che tenta in ogni modo di negare le nostre origini, la nostra essenza, in omaggio ad una “libertà” che, gratta gratta, si rivela solo esaltazione del libertinismo e dell’egoismo.
Esempio preclaro la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che impone l’allontanamento del crocifisso dalle scuole; ne ho letto la motivazione, dotta e ponderosa, che in un turbinio di richiami a vacui ed instabili (dis)valori, ci priva della nostre radici più profonde; la trascrivo per ogni personale riflessione; è in francese, ma intuitivamente comprensibile:

“48. Pour la Cour, ces considérations conduisent à l'obligation pour l'Etat de s'abstenir d'imposer, même indirectement, des croyances, dans les lieux où les personnes sont dépendantes de lui ou encore dans les endroits où elles sont particulièrement vulnérables. La scolarisation des enfants représente un secteur particulièrement sensible car, dans ce cas, le pouvoir contraignant de l'Etat est imposé à des esprits qui manquent encore (selon le niveau de maturité de l'enfant) de la capacité critique permettant de prendre distance par rapport au message découlant d'un choix préférentiel manifesté par l'Etat en matière religieuse.
49. En appliquant les principes ci-dessus à la présente affaire, la Cour doit examiner la question de savoir si l'Etat défendeur, en imposant l'exposition du crucifix dans les salles de classe, a veillé dans l'exercice de ses fonctions d'éducation et d'enseignement à ce que les connaissances soient diffusées de manière objective, critique et pluraliste et a respecté les convictions religieuses et philosophiques des parents, conformément à l'article 2 du Protocole no 1.
50. Pour examiner cette question, la Cour prendra notamment en compte la nature du symbole religieux et son impact sur des élèves d'un jeune âge, en particulier les enfants de la requérante. En effet, dans les pays où la grande majorité de la population adhère à une religion précise, la manifestation des rites et des symboles de cette religion, sans restriction de lieu et de forme, peut constituer une pression sur les élèves qui ne pratiquent pas ladite religion ou sur ceux qui adhèrent à une autre religion (Karaduman c. Turquie, décision de la Commission du 3 mai 1993).
51. Le Gouvernement (paragraphes 34-44 ci-dessus) justifie l'obligation (ou le fait) d'exposer le crucifix en se rapportant au message moral positif de la foi chrétienne, qui transcende les valeurs constitutionnelles laïques, au rôle de la religion dans l'histoire italienne ainsi qu'à l'enracinement de celle-ci dans la tradition du pays. Il attribue au crucifix une signification neutre et laïque en référence à l'histoire et à la tradition italiennes, intimement liées au christianisme. Le Gouvernement soutient que le crucifix est un symbole religieux mais qu'il peut également représenter d'autres valeurs (voir tribunal administratif de Vénétie, no 1110 du 17 mars 2005, § 16, paragraphe 13 ci-dessus).
De l'avis de la Cour, le symbole du crucifix a une pluralité de significations parmi lesquelles la signification religieuse est prédominante.
52. La Cour considère que la présence du crucifix dans les salles de classe va au-delà de l'usage de symboles dans des contextes historiques spécifiques. Elle a d'ailleurs estimé que le caractère traditionnel, dans le sens social et historique, d'un texte utilisé par les parlementaires pour prêter serment ne privait pas le serment de sa nature religieuse (Buscarini et autres c. Saint-Marin [GC], no 24645/94, CEDH 1999 I).
53. La requérante allègue que le symbole heurte ses convictions et viole le droit de ses enfants de ne pas professer la religion catholique. Ses convictions atteignent un degré de sérieux et de cohérence suffisant pour que la présence obligatoire du crucifix puisse être raisonnablement comprise par elle comme étant en conflit avec celles-ci. L'intéressée voit dans l'exposition du crucifix le signe que l'Etat se range du côté de la religion catholique. Telle est la signification officiellement retenue dans l'Eglise catholique, qui attribue au crucifix un message fondamental.
Dès lors, l'appréhension de la requérante n'est pas arbitraire.
54. Les convictions de Mme Lautsi concernent aussi l'impact de l'exposition du crucifix sur ses enfants (paragraphe 32 ci-dessus), âgés à l'époque de onze et treize ans. La Cour reconnaît que, comme il est exposé, il est impossible de ne pas remarquer le crucifix dans les salles de classe. Dans le contexte de l'éducation publique, il est nécessairement perçu comme partie intégrante du milieu scolaire et peut dès lors être considéré comme un « signe extérieur fort » (Dahlab c. Suisse (déc.), no 42393/98, CEDH 2001 V).
55. La présence du crucifix peut aisément être interprétée par des élèves de tous âges comme un signe religieux et ils se sentiront éduqués dans un environnement scolaire marqué par une religion donnée.
Ce qui peut être encourageant pour certains élèves religieux, peut être perturbant émotionnellement pour des élèves d'autres religions ou ceux qui ne professent aucune religion. Ce risque est particulièrement présent chez les élèves appartenant à des minorités religieuses. La liberté négative n'est pas limitée à l'absence de services religieux ou d'enseignement religieux. Elle s'étend aux pratiques et aux symboles exprimant, en particulier ou en général, une croyance, une religion ou l'athéisme. Ce droit négatif mérite une protection particulière si c'est l'Etat qui exprime une croyance et si la personne est placée dans une situation dont elle ne peut se dégager ou seulement en consentant des efforts et un sacrifice disproportionnés.
56. L'exposition d'un ou plusieurs symboles religieux ne peut se justifier ni par la demande d'autres parents qui souhaitent une éducation religieuse conforme à leurs convictions, ni, comme le Gouvernement le soutient, par la nécessité d'un compromis nécessaire avec les partis politiques d'inspiration chrétienne. Le respect des convictions de parents en matière d'éducation doit prendre en compte le respect des convictions des autres parents. L'Etat est tenu à la neutralité confessionnelle dans le cadre de l'éducation publique obligatoire où la présence aux cours est requise sans considération de religion et qui doit chercher à inculquer aux élèves une pensée critique.
La Cour ne voit pas comment l'exposition, dans des salles de classe des écoles publiques, d'un symbole qu'il est raisonnable d'associer au catholicisme (la religion majoritaire en Italie) pourrait servir le pluralisme éducatif qui est essentiel à la préservation d'une « société démocratique » telle que la conçoit la Convention, pluralisme qui a été reconnu par la Cour constitutionnelle en droit interne.
57. La Cour estime que l'exposition obligatoire d'un symbole d'une confession donnée dans l'exercice de la fonction publique relativement à des situations spécifiques relevant du contrôle gouvernemental, en particulier dans les salles de classe, restreint le droit des parents d'éduquer leurs enfants selon leurs convictions ainsi que le droit des enfants scolarisés de croire ou de ne pas croire. La Cour considère que cette mesure emporte violation de ces droits car les restrictions sont incompatibles avec le devoir incombant à l'Etat de respecter la neutralité dans l'exercice de la fonction publique, en particulier dans le domaine de l'éducation”.


Il muro di Berlino non c’è più, oggi è sostituito dal vuoto di chi ci vuole inermi, senza alcuna difesa, orfani ed apolidi, grosso e fragile soggetto meramente economico senz’anima.
Credendosi illuminate, queste sentenze finiscono per gettare il bambino insieme all’acqua sporca.

sabato 7 novembre 2009

Lettera aperta al Dott. Luciano Porro



Il candidato Sindaco della sinistra (più avanti spiegherò motivatamente perché lo definisco tale, non se ne dolga) ha creduto di replicarmi in un comunicato inviato alla stampa, in cui – con una curiosa dicotomia – sembra finire bene, ma dopo aver detto male.
In un ozioso pomeriggio di sabato, chiuso in casa con mezza famiglia influenzata, proverò, dunque, a spiegarmi meglio, rinviando ad altra occasione un intervento sul muro di Berlino, con qualche ricordo personale.
Non sarò breve: confido nella paziente rassegnazione dei miei 21 lettori.
Il Dott. Porro suddivide le sue osservazioni in due temi fondamentali: uno politico, uno amministrativo-contabile. Li riprendo ordinatamente, seppure suddividendoli in diverse piste di commento:

1) Politica 1: “Non si capisce poi perché Gilli parli di candidato Sindaco della sinistra (solo quella) e non di una ben più ampia coalizione di centrosinistra, come è in realtà, negandone l’evidenza”.
Non si tratta di affermare o di negare l’evidenza, ma di dare valutazioni, ovviamente opinabili. Dal mio punto vista – che il Dott. Porro, da sincero democratico, mi permetterà di avereegli è il candidato delle sinistre. Infatti, non si è replicato quanto accaduto alle recenti elezioni, in cui lui era sostanzialmente il candidato del PD e del Partito Socialista, cui solo in occasione del ballottaggio si sono uniti la “Sinistra Saronnese” (che aveva un suo proprio candidato Sindaco) e la lista “Tua Saronno” (idem): un’operazione “veltroniana”, in cui il perno era il PD.
Oggi, invece, la situazione è mutata, poiché sin dall’inizio il Dott. Porro è alleato con la sinistra radicale di “Sinistra Saronnese”, che ben si accompagna, in quanto a radicalismo, all’IDV, mentre ha perso l’area moderata-progressiva di “Tua Saronno” e del suo già candidato Sindaco, lista e candidato di ben altro spessore e cultura.
Il Dott. Porro, con questa operazione, ha addirittura anticipato il suo neosegretario nazionale Bersani, che si propone di allargare a sinistra, in una riedizione dell’Ulivo di poco fausta memoria.
Dunque, il PD saronnese, in questo modo, si è sbilanciato verso sinistra e la raccogliticcia coalizione del Dott. Porro si è privata di una valida forza civica moderata, ala “centrista” (a dire il vero, ha perso anche l’appoggio di un’altra Lista Civica presentatasi a destra, ma sua improvvisa sostenitrice solo al ballottaggio). Gli è rimasta dunque solo la sinistra, ampia e variegata, ma senza alcuna stampella correttrice ed equilibratrice; per me è un fatto, oltre che un’opinione; né credo che ci sia da vergognarsi a sentirsi definire di sinistra; o no?
Questo sembra a me e credo parrà anche ai Saronnesi, che si trovano una bella sinistra finalmente a sinistra (cioè dov’è la sua naturale collocazione), senza tanti giri di parole per attenuarne l’accesa coloritura.
Dal mio punto di vista, anche nel centro-destra c’è il rischio di uno spostamento più a destra; anche se la Lega Nord sfugge alle tradizionali classificazioni politiche, i temi che difende sono certamente più popolari a destra, sicché l’alleanza del PDL con la Lega, che prima di quest’anno era all’opposizione, comporta inevitabilmente uno spostamento dal centro da parte del PDL stesso, soprattutto se l’alleata centrista UDC se ne andrà per i fatti suoi: anche qui, dunque, un centro-destra certamente più destrorso.
Saronno, però, ha tradizioni spiccatamente moderate (o centriste), che con questi schieramenti vengono messe a dura prova; forse è bene incominciare a pensare di dare una voce anche a chi è affezionato a queste consuetudini, magari valorizzando gli aspetti locali, civici, più che le appartenenze a famiglie politiche gerarchizzate. Staremo a vedere, prima delle elezioni comunali deve trascorrere ancora molto tempo.

2) Politica 2: “Forse dimentica le divisioni all’interno della maggioranza politica che lo sosteneva quando lui era Sindaco e dimentica tutte le volte che lo hanno messo in difficoltà, minacciando dimissioni, facendo ritirare delibere o facendo mancare spesso il numero legale in Consiglio Comunale per disaccordo con il Sindaco stesso”: non lo dimentico, ne sia certo il Dott. Porro, così come io sono certo, in coscienza, di non aver seminato in tal senso.
A parte il fatto che, come in ogni famiglia, i momenti di difficoltà di comprensione sono fisiologici (vale per tutti, a destra, al centro, a sinistra), ho preso atto con soddisfazione che da parte del Dott. Porro e di alcuni suoi eccellenti sostenitori
(cfr. http://pierluigigilli.blogspot.com/2009/06/rigirare-la-frittatail-neo-podesta.html)
si è incominciato a rivalutare la figura del Sindaco (“quello sì eletto dal popolo, quello saronnese, al ballottaggio; la sovranità popolare e democratica sono differenti nell’uno e nell’altro caso”) e – suppongo – il sistema “presidenziale” introdotto dal sistema elettorale di Comuni e Province; da sempre ne sono stato sostenitore ed esecutore, seppure accompagnato dalle continue accuse di decisionismo e di mancanza di democrazia spiccate dalle sinistre a corto di argomenti oppure dalle turbolenze interne della maggioranza (o, più propriamente, delle sue “correnti”).
Invero, il problema dell’equilibrio tra le attribuzioni che l’ordinamento assegna al Sindaco e quelle assegnate al Consiglio Comunale permane, perché la semplificazione ai fini dell’efficienza e della rapidità decisionale voluta dalla legge è sempre stata sentita come estranea all’altro consolidato sistema dei partiti, che hanno riti e forme di coinvolgimento molto complessi e lenti.
Nella presentazione di una raccolta di miei discorsi, a questo proposito scrivevo (a maggio del 2009!): “Ma, come tutte le cose che vanno bene, i laudatores temporis acti, dopo un momentaneo sbandamento, hanno ripreso le loro abitudini esoteriche; mentre la Pubblica Amministrazione sta cambiando e, tramite l’informatica, si sta compiendo un cambiamento che non ha precedenti per la tempestività e per il modo diretto di comunicazione tra il “palazzo” e i cittadini, ecco sorgere precisi segnali secondo cui proprio questo contatto diretto è visto con sospetto se non con fastidio dalla burocrazia meno sensibile, che è scavalcata e rimane indifesa di fronte all’intervento mirato e tempestivo dell’organo elettivo, e che non è amato neppure dalla politica, essa pure spiazzata perché vede erosa la sua tradizionale funzione di mediatrice e, per conseguenza, la sua influenza.Le tante conseguenze benefiche della legge 81 del 1993 sono intimamente ed occultamente detestate da una classe politica che conserva la mentalità della c.d. prima Repubblica: quella dell’onnipotenza delle segreterie politiche, dei tavoli, delle commissioni, della concertazione, della mediazione, dei compromessi, che sono la ragione di vita di un sistema policentrico, in cui lo scopo non è governare, ma neutralizzarsi a vicenda: il rapporto diretto elettori-eletto, quindi, è visto come fumo negli occhi.Purtroppo – dal mio punto di vista e per esperienza vissuta – a livello di Enti Territoriali la stagione di riforme iniziata con la legge 142 nel 1990 sta sfiorendo; in controtendenza con la richiesta di maggiori poteri decisionali per il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Governo, infatti, mi avvedo che, nei rami più bassi delle Amministrazioni locali, la tendenza dei politici è quella di ritornare all’assemblearismo, alla riduzione delle responsabilità dei Sindaci e dei Presidenti delle Province a favore di un vecchio sistema decisionale complesso, complicato e lento, dal linguaggio oscuro. Non piace metterci la faccia, esporsi in proprio, nel bene e nel male, con l’assunzione di una vera responsabilità di fronte agli elettori; meglio i sistemi indiretti, in cui, con la scusa di esaltare le sovrane prerogative dei Consigli Comunali, tutto si scompone in rivoli di finto potere, esercitato invece al di fuori degli organi istituzionali rappresentativi, in luoghi più appartati”.
Tra il 1999 ed il 2004, ci fu una sorta di vuoto, un limbo in cui – nel temporaneo disorientamento delle forze politiche tradizionali – il Sindaco e la Giunta hanno avuto la possibilità di applicare questi princìpi con velocità e – mi permetto di dire – buoni risultati.
Dal 2004, dopo la rentrée di molti che erano stati prudentemente alla finestra, si è avuta una rapida involuzione, con il ritorno di copioni politico-amministrativi vecchi, frusti e lisi, ma conosciuti a memoria da chi – evidentemente – preferiva legittimemnte i precedenti sistemi.
Secondo me è da questo esempio che è stato seminato quello che, con delicatezza, ho definito rimbombante silenzio degli amici di centro-destra saronnese; personalmente, rimangono amici; politicamente non so.
Mi dia retta, Dott. Porro: nel caso di Sua vittoria alle prossime elezioni, avrà le stessissime difficoltà, per di più con una coalizione ampia e variegata; purtroppo è così dappertutto, la stagione dei cambiamenti è finita (ammesso che sia mai cominciata veramente); Lei è uomo di partito più di me – che mi considero più propriamente un (ex)amministratore -, sicché con maggiore duttilità riuscirebbe a galleggiare meglio; però – lo lasci dire a me che ho potuto sperimentare cinque anni in un modo e cinque in un altro – dimentichi in fretta la vera sostanza a natura della legge dell’elezione diretta del Sindaco, faccia finta che non esista o inventi un modo molto soft per applicarla, altrimenti avrà vita grama e potrebbe mancare anche a Lei il numero legale (e non solo quello)…

3) Amministrazione-contabilità pubblica: in un mio intervento del 2 giugno 2009 (http://pierluigigilli.blogspot.com/2009/06/proposito-di-danaro-lasciato-dalle.html) illustravo ampiamente la famosa storia del tesoretto; chi è interessato, può fare una digressione ed andarsi a leggere le mie osservazioni, che ribadisco.
Con un’aggiunta; il Dottor Porro, dopo aver ricordato – per l’appunto – il tesoretto, chiosa: “Se dopo 10 anni di Gilli le casse del comune sono desolatamente vuote, decidano i saronnesi se chiederne conto a lui o a me”. Ahimé, si tratta di uno sconcertante svarione, che dimostra come la conoscenza del bilancio comunale sia ritenuta una variabile indipendente da chi vorrebbe amministrarci.
Non mi stancherò mai di ripetere che le casse del Comune non devono essere piene, perché – se lo fossero – significherebbe che gli Amministratori o hanno chiesto troppi soldi ai loro concittadini o non li hanno saputo spendere. Non ci deve essere avanzo di amministrazione, che non è un “utile”, ma la prova che la macchina comunale non ha saputo gestire con efficienza i soldi dati dai cittadini. Ogni bilancio è indipendente dall’altro; ogni anno il Comune deve essere autonomo nell’esercizio economico-finanziario; non si possono accumulare “risparmi”, tra l’altro improduttivi, perché depositati obbligatoriamente alla Tesoreria Unica Nazionale, che non dà nemmeno gli interessi! Le “casse vuote” sono la normalità; l’anormalità sta nell’impossibilità di redigere un bilancio annuale con entrate sufficienti a far fronte ai bisogni: questo è il problema attuale della finanza locale; sarà bene che si rassegni, è così, mi creda: ne tenga conto nella preparazione del Suo programma elettorale, prima di fare promesse temerarie.
Quanto al “tesoretto”, non si domanda che fine abbia fatto?
Lo abbiamo speso, com’era nostro dovere; ha concorso, per esempio, ad importanti opere pubbliche (il rifacimento di Corso Italia, 2° tratto, e di piazza San Francesco; il Viale e la Piazza del Santuario; il Liceo Classico; la Sala Consiliare; l’Università; il raddoppio del Paladozio; i restauri di Villa Gianetti; Via Garibaldi; Via Marconi; molte altre strade; parchi e giardini; alcuni nuovi pozzi; rinnovo di parte dell’impianto fognario; l’acquisto di terreni per il Parco del Lura; la chiusura di vecchissime cause per espropri; ecc., ecc.): interventi sotto gli occhi di tutti, magari non condivisi da Lei, ma tutti fatti con soldi inutilmente tenuti in frigorifero.
E si documenti appropriatamente, per cortesia, prima di inventare inesistenti rinunce “ad incassare oneri di urbanizzazione anche quando avrebbe potuto e dovuto”.
La lettura degli artt. 633 e ss. del codice di procedura civile (in materia di procedimento d’ingiunzione e dei suoi tempi) e della legge fallimentare Le farebbe capire molte cose.
E' incomprensibile che, in una situazione economica drammatica, qual è quella che stiamo vivendo, si concedano brevi dilazioni? A tanti sono state concesse, anche ad inquilini di case comunali che non riuscivano a pagare l’affitto… Nella fattispecie da Lei suggestivamente citata, scaduta la dilazione, sono state irrogate tempestivamente anche le sanzioni di legge. Per di più, si dimentica una circostanza: l’esistenza della revocatoria prevista dalla legge fallimentare, che peraltro interrompe di diritto ogni pendente azione di ricupero del credito, in omaggio al principio della par condicio creditorum: se i danari fossero stati pagati, li si sarebbe dovuti ridare al fallimento. Il credito del Comune di Saronno è privilegiato e garantito da fideiussione e suppongo sia già stato ammesso allo stato passivo fallimentare.
A Lei piacerebbe montare uno scandalo su questa limpida vicenda; lo faccia, se ne ha gli elementi; altrimenti, per rispetto degli “avversari politici”, eviti argomenti scivolosi, che hanno l’odore dell’insinuazione.

4) Invocazione finale: “Occorrono maggiore umiltà e sobrietà, maggior rispetto degli “avversari politici”, meno egoismo, più solidarietà anche tra le persone, più lealtà e correttezza, più cuore e meno cinismo” : condivido pienamente il Suo accorato appello, - per quanto valer possa il mio parere; diversamente da Lei, io non sono candidato a nulla, né a Saronno, né altrove, di tal che non ho problemi di campagna elettorale. A questi nobili sostantivi, tuttavia, aggiungerei anche la buona educazione e il dubbio.
Mi interrogo spesso da solo e mi creo i dubbi, che spesso poi confutano le prime impressioni o confermano le mie certezze; una di queste è l’impegno a dare sempre una risposta, anche se negativa e non corrispondente alle aspettative altrui.
Come vede, mi confronto con Lei pubblicamente (e devo dire che trovo stimolante usare metaforicamente una penna leggera, piuttosto di quella “fumina” che mi viene spontanea); pubblicamente non ho mai nascosto né a Lei, né a chiunque, la mia opinione sulla soluzione da dare all’inconsueta situazione politico-istituzionale verificatasi a seguito del ballottaggio.
Me ne dà atto Lei stesso indirettamente, allorquando sostiene che i 16 Consiglieri che si sono dimessi abbiano… ubbidito alle mie indicazioni più volte ripetute.
Indubbiamente, mi attribuisce una forza ed un potere che in verità non ho mai avuto, nemmeno nei momenti di massima “popolarità”, figuriamoci quest’anno, quando nemmeno sono stato candidato a Consigliere Comunale (sa, ho appreso della lista del PDL solo a cose fatte, dai giornali…).
In punto, sono stato sempre con Lei onesto, corretto e leale (aggettivi molto cari non solo a Lei), nella legittima distinzione delle posizioni, anche la sera stessa della Sua elezione, allorquando, al rientro da una serata non propriamente serena, alle due di notte, ho sentito il dovere di scriverLe un’e-mail (non era la prima volta che si corrispondeva con una certa confidenzialità) per inviarLe i miei complimenti per la Sua personale affermazione; nell’occasione, senza infingimenti, Le ribadivo la mia personale opinione circa la strana situazione che si era venuta a creare; Le auguravo buon lavoro, Le davo la mia disponibilità per ogni questione amministrativa, insieme ad una forte stretta di mano ed all’auspicio che il Signore L’accompagnasse.
Temo che gli affanni dei giorni seguenti Le abbiano impedito di darmi una risposta, purtroppo mai avuta anche solo per accusare formalmente ricevuta; non credo si sia trattato di repentina antipatia nei miei confronti: continuo a pensare, infatti, che è vero che occorrono maggiore umiltà e sobrietà, maggior rispetto degli “avversari politici”, meno egoismo, più solidarietà anche tra le persone, più lealtà e correttezza, più cuore e meno cinismo.
Che valga per tutti; a volte basta un’e-mail.
Spero di non doverLa importunare più.
Buona domenica.

mercoledì 4 novembre 2009

Una resa culturale suicida


Dunque, secondo la Corte Europea dei diritti dell'uomo la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche costituisce "una violazione dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni" e una violazione alla "libertà di religione degli alunni"; “La presenza del crocifisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastiche – annota la sentenza - potrebbe essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso. Avvertirebbero così di essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione”; seguirà la motivazione.
Il neosegretario del Partito Democratico Pierluigi Bersani – che per certo non è un bacchettone - ha commentato con lucidità: ''Penso che su questioni delicate come questa qualche volta il buonsenso finisce per essere vittima del diritto. Un'antica tradizione come il crocifisso non può essere offensiva per nessuno''.
Un giudizio equilibrato e – appunto – di buon senso, che affronta con pacatezza e senza il ricorso ad argomentazioni apocalittiche quello che, per il comune sentire degli Italiani, rischia sicuramente di diventare un problema.
Gli Italiani sono fondamentalmente tolleranti e comprensivi, poiché la loro storia, per antonomasia, è sempre stata aperta in conseguenza non solo della configurazione geografica dello Stivale, ma soprattutto dello spirito universale della tradizione romana e della visione cattolica (“universale” in greco) della Chiesa di Roma.
L’universalità è una caratteristica del nostro popolo, poco votato all’imperialismo, perché esso stesso vittima delle invasioni di ogni genere; caratteristica che segna indelebilmente il nostro modo di essere, la nostra identità più profonda, che almeno dall’Editto di Milano del 313 d.C. si è compenetrata, si è confusa con il cristianesimo in chiave religiosa, ma pure culturale, sociale, artistica, filosofica.
Di colpo, gli algidi, asettici Giudici di una Corte deputata a difendere i diritti dell’uomo ci spoglia della nostra identità: si badi bene, non del confessionalismo, perché la nostra Repubblica non è uno Stato confessionale, come ha riconosciuto anche la Chiesa Cattolica nel 1984 in sede di revisione consensuale del Concordato del 1929: “tenuto conto del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano II; avendo presenti, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la nuova codificazione del diritto canonico; riconosciuta l’opportunità di addivenire a modificazioni consensuali del Concordato lateranense, ha pienamente riconosciuto di considerare non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato" (art. 1 dell’Accordo di Villa Madama e art. 1 del Protocollo Addizionale 1984).
L’Italia è uno Stato laico, ove “il rispetto dei principi di libertà e di eguaglianza è garantito non tanto in raffronto alle situazioni delle diverse confessioni religiose (fra l’altro sarebbe difficile negare la diversità di situazione della Chiesa cattolica), quanto in riferimento al medesimo diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi e confessioni religiose di fruire delle eventuali facilitazioni disposte in via generale dalla disciplina comune dettata dallo Stato perché ciascuno possa in concreto più agevolmente esercitare il culto della propria fede religiosa" (sent. 195 del 1993 della Corte Costituzionale); anzi, la laicità dello Stato è assurta a principio supremo costituzionale: «i valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20 della Costituzione), a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica. Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale» (Corte Costituzionale, sentenza n. 203 del 1989).
Mentre, dunque, il nostro ordinamento, seppure tra tante contraddizioni e dispute, si è affrancato dalle tentazioni estreme del confessionismo e del laicismo, in omaggio ad una moderna e condivisa laicità, così come enucleata dalla Corte Costituzionale, un’altra Corte ci spinge verso l’abbraccio mortale della negazione della nostra storia e cultura e dell’indifferenza totale rispetto al fenomeno religioso, sostituito da un’intollerante razionalità areligiosa, che tanto ricorda il radicalismo giacobino dei rivoluzionari francesi, (i quali, con un decreto del 7.5.1791, proclamarono la libertà religiosa nella Nazione francese, ma inneggiarono ad un’improbabile Dea Ragione, cui dedicarono una grottesca Festa, nel trionfo delle idee anticristiane).
Il crocifisso nelle aule, quindi, violerebbe la libertà di religione degli alunni; ma quale libertà? La libertà di ignorare i plurisecolari usi e costumi di un popolo?
I cristiani praticanti i cristiani tiepidi, i cristiani nominali - per il solo fatto di esistere e di rappresentare culturalmente prima che religiosamente il sostrato profondo e largamente diffuso dei popoli europei – sono allora confinati in un regime affievolito nell’esercizio del loro diritto inviolabile di libertà religiosa rispetto ai non cristiani, agli atei, agli indifferenti?
Quale fastidio può dare un'antica tradizione come il crocifisso, quando non è – come non è in alcuno Stato dell’Unione Europea – accompagnato dall’obbligatorietà di adesione ad una determinata confessione religiosa, insegnata forzatamente a tutti?
Senza scomodare Don Giovanni d’Austria vincitore della battaglia di Lepanto nel remoto 1571 o Giovanni III Sobieski salvatore di Vienna nella lontana battaglia del 1683, ho l’impressione che questa Corte sia ben più pericolosa degli eserciti e delle flotte musulmane, giunte allora a mettere a repentaglio la respublica cristiana europea: non si tratta, infatti, di uno scontro militare per motivi politico-territoriali paludati di religiosità, bensì di una resa culturale suicida, che in nome di una falsa libertà libertina vuole rendere l’Europa – come dice il Presidente del Senato Renato Schifani - uno spazio vuoto di simboli, di tradizioni, di cultura, del tutto neutro come potrebbe essere un soggetto asessuato.
Non c’è da meravigliarsi di questa rovinosa deriva, che ha innescato il meccanismo dell’autodistruzione di una civiltà antichissima: d’altronde, la colpevole pavidità (e l’ansia di apparire “moderni”) della gran parte dei governanti europei ha impedito dolosamente di inserire nella c.d. Costituzione europea anche un solo richiamo alle radici giudaico-cristiane del Vecchio Continente, che proprio da queste ha tratto la sua fisionomia, il suo progetto di civiltà, il suo modello di vita.
Esultino pure gl’irriducibili laicisti iperrazionalisti; purtroppo sarà tardi anche per loro quando si accorgeranno che il vuoto culturale prodotto da sentenze come quella di cui discutiamo sarà riempito, per una legge naturale, da altre culture, più ferme, solide, convinte (se non aggressive) della loro intrinseca validità.
I musulmani non si vergognano della loro religione – come troppi “cristiani” (anche quelli che non sanno di esserlo e magari ne beneficiano indirettamente) e ne deducono una forza espansiva “giovanile”; noi, invece, sazi e disperati, secondo l’inquietante definizione del Cardinal Biffi, ci avviciniamo alla senescenza culturale priva di bussola.
Urge reagire, a pena della distruzione lenta e melliflua della nostra identità.