mercoledì 8 giugno 2011

Referenda vitanda


Quattro referendum (più propriamente si dovrebbe dire “referenda”, neutro plurale) nella prossima fine settimana; come comportarsi? Ci ho lungamente pensato, partendo dal presupposto che il voto sia un diritto-dovere di ogni cittadino.
Prima di entrare nel merito dei quesiti, devo però osservare che l’uso di questo strumento, previsto dall’art. 75 della Costituzione, si è fatto con il tempo “abuso”. 
Dopo che i cittadini furono chiamati alla urne per problemi fondamentali e di coscienza (divorzio, l’aborto), si è via via transitati verso quesiti complessi, tecnici, di difficile comprensione, che spesso furbescamente si è tentato di semplificare al massimo in un sì e in un no, con manovre al limite del truffaldino.
Di qui l’insuccesso persistente del mancato raggiungimento del quorum minimo previsto dalla Costituzione e l’innegabile indebolimento dell’istituto referendario in sé.
Oltretutto, poiché la nostra è una democrazia rappresentativa, viene da domandarsi a che cosa serva eleggere il Parlamento, rappresentate del popolo sovrano, se poi si insiste a volere il parere dei cittadini su ogni tipo di questione, anche la più difficile, che non richiede approcci emotivi e di parte: delegittimazione del Legislatore (peraltro controllato strettamente dalla Corte Costituzionale), uso politico, di revanche, dello strumento referendario per scardinare gli assetti del Parlamento.
Ciò premesso, veniamo al merito.
Sull’acqua, sono sempre stato sostenitore non solo della natura ontologicamente e nativamente pubblica di questo elemento essenziale per la vita, ma anche della gestione pubblica del servizio idrico integrato, possibilmente tramite strumenti “leggeri”, come le società di diritto privato in totale mano pubblica (quello che accade a Saronno, p.es., tramite Saronno Servizi s.p.a. e Lurambiente s.p.a, di totale proprietà di Comuni. Per ragioni di economia di scala, potrebbe essere utile qualche forma aggregativa di Comuni, rispettosa dei bacini imbriferi (e non dei confini territoriali delle province, che sono disegnati sulla carta, indipendentemente dalla direzione di fiumi e torrenti), sempre tramite società di carattere pubblico.
Nondimeno, direttive dell’Unione Europea, leggi nazionali e regionali hanno spinto ad una parziale privatizzazione della gestione, per fomentare, in tal modo, gl’ingenti investimenti necessari per l’adeguamento delle reti, spesso dei veri e propri colabrodo.
Il problema è quello dei costi, del prezzo dell’acqua per i consumatori, che in Italia pare essere il più basso in Europa. Ma chi lo deve decidere questo corrispettivo? Attualmente, siamo in una situazione paradossale; nella nostra città, il prezzo dell’acqua è fermo da più di 15 anni; da anni, la competenza per la determinazione della tariffa è stata tolta ai Comuni e passata ai finora fantomatici e non gratùuiti A.T.O. provinciali, che nulla hanno fatto, se non produrre grandi e costosi studi.
Basterebbe – almeno temporaneamente – ridare ai Comuni la possibilità di stabilire il prezzo dell’acqua, che effettivamente è troppo basso (e induce anche agli sprechi); un aumento di pochi centesimi al mc permetterebbe di riportare in pareggio le gestioni; un aumento un po’ più significativo consentirebbe di accumulare fondi per nuovi investimenti. Ma sempre sotto il controllo diretto dei cittadini del singolo Comune o del gruppo di Comuni che si siano messi insieme allo scopo.
Il privato non c’entra, come non c’entrano le ubriacature degl'improvvisati e convertiti neoprivatizzatori à l'européenne, che spingono a soluzioni completamente diverse: le stesse che molti che oggi urlano di votare sì avevano sostenuto entusiasticamente fino a poco tempo fa (si vedano le posizioni del Segretario del PD, Bersani, che si beava con le sue lenzuolate di privatizzazioni nella calda estate 2006, da Ministro del 2° governo Prodi, e che oggi – con una poco astuta manovra da politique politicienne – sostiene l’incontrario per ragioni palesemente strumentali).
Provo molto fastidio per questa vergognosa politicizzazione di un argomento serio; non mi piacciono le banderuole, che fiutano il vento per motivi che nulla hanno a che fare con l’acqua. Rimango della mia opinione, ma non mi presterò, con il mio piccolo voto, ad avallare presunte spallate politiche, che si dànno nella sede competente del voto per il Parlamento. 
Non voterò.
Sul nucleare, non mi diffondo più di tanto; già fui uno dei pochi che, nel lontano referendum del 1986, votarono “no”. Rimango coerente, soprattutto nel rifiuto delle ipocrisie di chi vuole la botte piena e la moglie ubriaca.
Sul legittimo impedimento, infine, invoco il ritorno alla Costituzione, quella così bella e così celebrata che scrissero i Padri Costituenti, i quali vollero l’art. 68 in questo testo originario: “Nessun membro del Parlamento può, senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, essere sottoposto a procedimento penale, né arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione domiciliare, salvo il caso di flagrante delitto, per il quale è obbligatorio il mandato o l'ordine di cattura”. Si trattava della c.d. immunità parlamentare dell'«inviolabilità», che i nostri saggi predecessori, appena usciti da un ventennio di dittatura, vollero fortemente con lo scopo di evitare che attraverso pretestuosi atti giudiziari nei confronti di singoli parlamentari si potesse turbare la libera esplicazione del loro ufficio e, nei casi più gravi, si venisse ad incidere sulla stessa composizione dell'Assemblea. In tal modo, era assicurato l’equilibrio tra i poteri dello Stato e nessuno di essi poteva prevaricare, men che meno per ragioni strumentali, sull’altro. 
Purtroppo, nel 1993, sull’onda emotiva di tangentopoli (su cui qualcuno ha costruito le sue attuali fortune politiche e che, parlando di valori – forse quelli bollati – ha promosso questo referendum), l’art. 68 della Costituzione, quella dei veri democratici Padri Costituenti, fu modificato con una forte attenuazione dell’immunità, il che ha esposto, da allora, i parlamentari a spesso discutibili inchieste giudiziarie, moltissime volte finite nel nulla, dopo avere provocato danni immensi ai coinvolti. La legge di cui si chiede l’abrogazione mediante il referendum è un ridicolo palliativo che, dopo le amputazioni derivate dall’intervento della Corte Costituzionale, rende ancora di più dipendenti i parlamentari dalle decisioni dei Giudici. Non serve a nulla, se non ad affermare un principio, ma senza la precisione e la serietà dell’originario testo dell’art. 68; il fatto che, di quell’immunità, si sia abusato in passato, non ne fa venir meno lo spirito di profonda democrazia che i Costituenti vi impressero. 
Basterebbe tornare a quel testo, che fu approvato pressoché all’unanimità, ed il nostro sistema costituzionale tornerebbe all’armonia originaria nei rapporti tra i poteri dello Stato.
Al referendum voterei “no”, con poca convinzione, perché la legge di cui si vuole l’abrogazione, come detto, è una pallida reminiscenza di quanto voluto, con ben altro spessore, dall’Assemblea Costituente.
Anche astenersi dal partecipare al voto è una manifestazione di libertà e di opinione. Eserciterò così – salvo sorprese – il mio diritto.


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Addendum (dopo la lettura di un commento su FB): 
Sull'acqua: la mia posizione, anche come amministratore, è sempre stata la stessa e continuerà ad esserlo, indipendentemente dalla consultazione referendaria; l'acqua è un bene pubblico, punto e basta. Ma la degenerazione del referendum, tramutato in un grimaldello di natura meramente politica, mi infastidisce moltissimo; non voglio essere complice di nessuno per finalità di natura politica, che hanno un loro naturale sbocco elettorale. I referendum sono stati trasformati in una sorta di giudizio di Dio, con tanto di guidrigildo. Non è questa la loro funzione. Non m'interessa. Anzi, mi dispiace che, per l'aver voluto taluni metterci sopra il cappello per altre finalità, io (e temo molti altri come me) mi debba sentire così a disagio, su un argomento sul quale, invece, si potrebbe benissimo essere tutti d'accordo, senza voler "vincere". Quindi, chi ha voluto strafare e andare fuori tema per altri interessi, non si lamenti se dovesse venire a mancare il quorum; imputet sibi.

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