mercoledì 8 maggio 2013

Come si conciliano i diritti umani con l’Islam?



Uno dei princìpi cardine dell’ordinamento internazionale è la reciprocità, ossia il recirproco riconoscimento di un trattamento paritariamente vantaggioso, in un ambito di generale libertà garantita dagli Stati. 
Come conciliare nel sistema internazionale la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950, da una parte, con la dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo del 1981?
Allo specifico diritto di libertà religiosa, i primi due documenti non pongono limiti, se non quelli dell’ordine pubblico e del buon costume; la dichiarazione islamica, invece, restringe il concetto di libertà religiosa alla compatibilità con il concetto di persona e di comunità dell’Islam, fondato su una legge divina. Istruttivo, in tal senso, l’art. 12 (Il diritto alla libertà di pensiero, di fede e di parola): “Ogni persona ha il diritto di pensare e di credere, e di esprimere quello che pensa e crede, senza intromissione alcuna da parte di chicchessia, fino a che rimane nel quadro dei limiti generali che la Legge islamica prevede a questo proposito. Nessuno infatti ha il diritto di propagandare la menzogna o di diffondere ciò che potrebbe incoraggiare la turpitudine o offendere la Comunità islamica” (nel 1990 è stata proclamata la Dichiarazione del Cairo dei Diritti Umani dell’Islam, il cui art. 10 dice semplicemente: “l’Islam è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano. È proibito esercitare qualsiasi forma di violenza sull’uomo o di sfruttare la sua povertà o ignoranza al fine di convertirlo a un’altra religione o all’ateismo”)
La forma eufemistica più frequente per comprimere – se non per negare tout court – la libertà religiosa è appunto l’apposizione di limiti al suo esercizio, tanto più pericolosi, quanto più discrezionali e demandati all’interpretazione e all’applicazione da parte di autorità amministrative/giurisdizionali o di istituzioni espressione di un culto dominante.
Per esempio, l’obbligo di riportare sui documenti d’identità il culto cui si appartiene (Egitto), l’introduzione del reato di blasfemia anticoranica (Pakistan), il divieto di passare ad altra religione (molti Paesi islamici, alcuni Stati induisti della Federazione dell’India), la necessità di richiedere l’autorizzazione di polizia per l’uso del vino nelle funzioni cristiane (Pakistan), il divieto di praticare anche privatamente il proprio culto non islamico (Arabia Saudita).

È reciprocità, questa?
Pierluigi Gilli  per    



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