giovedì 17 marzo 2011

Celebro anch’io la nostra Italia


Ricorre oggi il 150° anniversario della proclamazione solenne del Regno d’Italia, avvenuta a Torino, prima capitale italiana sino al 1865, già capitale del regno subalpino.
Un secolo e mezzo di storia unitaria, con tutte le contraddizioni del nostro grande Paese: il bel Paese, che così spesso critichiamo e di cui ci lagniamo, ma che è la nostra Patria, la madre comune di tanti popoli di antiche tradizioni, che insieme, magari senza troppa convinzione, hanno raggiunto traguardi importanti ed un senso comune unitario, arricchito dall’infinita particolarità dei suoi abitanti, dei campanili sotto la cui ombra si distende una terra così varia e multiforme, in cui il genius loci  ha operato meraviglie.
Ne siamo eredi, non sempre degni; abbiamo sulle spalle il più grande patrimonio artistico del mondo, la nostra fantasia supplisce ai difetti da cui siamo afflitti; anche se ce ne dimentichiamo con allegra disinvoltura, siamo tenuti insieme dalla ricchissima cultura e da un senso comune che ha le sue profonde radici nella fede cristiana tramandataci dai nostri padri.
L’italianità è un concetto difficile, per l’individualismo che ci contraddistingue e che ci distingue dal senso civico di altri popoli.
Però siamo Italiani e ne proviamo orgoglio, non soltanto in occasione delle partite della nazionale di calcio; non lo ammettiamo apertamente, tuttavia lo sappiamo e coltiviamo il vezzo di convertire  l’amore per  il nostro Paese nel continuo parlarci addosso. Ma quando occorre, sappiamo riunirci.
Con affetto per questa Penisola, così allungata nel mezzo del Mediterraneo, con le sue isole grandi e piccole, voglio celebrare anch’io l’anniversario, nel ricordo del tributo dei miei predecessori nella linea della vita: un trisnonno, morto in battaglia nella prima, sfortunata guerra d’indipendenza, nel 1848; un bisnonno, incorporato nell’esercito regio dieci giorni prima della nascita del Regno d’Italia.
Una piccolissima storia familiare, che mi fa sentire partecipe della nostra storia, come quando, nel 2007, rientrando da una viaggio a Padova, sostai a Custoza, nei pressi di Verona, al sacrario ove sono custoditi pietosamente i resti mortali dei forti soldati  che, nel 1848 e nel 1866, persero la vita nelle battaglie della Prima, Seconda e Terza Guerra d’Indipendenza: tra questi, anche un mio trisavolo torinese, Francesco Marocco, caduto a Sommacampagna appunto nel 1848.
Avevo con me il mio figlio più piccolo, con il quale ho voluto condividere un momento di emozione storica e di commozione familiare, nel segno della tradizione, cioè del passaggio della consegna da una generazione all’altra, unite da un filo sottile, che preserva dall’oblio.
Lo stesso pensiero è condiviso da milioni di Italiani, che hanno tra gli avi uomini e donne che – nei modi più diversi – hanno partecipato alla formazione del Paese.
Oggi è il momento di ricordarli e, per quanto mi riguarda, ho la fortuna di poterlo fare tramite i documenti che sono arrivati sino a me e che custodisco con cura gelosa; da qui ho tratto le notizie certe, da cui discende una comprensione intima della storia, fatta da persone concrete, con le loro sofferenze, con le loro fatiche, non idealizzate in dipinti esornativi o in statue imponenti.
Un piccolo omaggio, alla mia, alla nostra Patria, alla mia famiglia, in un giorno fausto per la comunità degli Italiani.
Il mio bisnonno paterno, Giacomo Gabriele Gilli, nacque a Poirino (TO) l’11 febbraio 1840, da Giovanni e Maria Gioda; visse 81 anni, sino al 12 gennaio 1921.
Da Poirino, Giacomo Gabriele si trasferì per lavoro nella regia capitale, Torino, dove visse tutta l’epopea risorgimentale (prima guerra d’indipendenza, 1848; seconda guerra, 1859).
Ammesso alla leva militare nel 1860, il 7 marzo 1861 (dieci giorni prima della proclamazione del Regno d’Italia), fu chiamato al 1° Reggimento di Artiglieria Pontieri, da cui si congedò con il grado di Pontiere di prima classe il 1° ottobre 1864.
Nel 1866, il 6 maggio, fu richiamato alle armi per la terza guerra di indipendenza e congedato a Pavia il 23 maggio, perché affetto da ernici voluminose e madure.
Dalla descrizione riportata nel foglio di congedo, risultava una statura di m. 1.69, capelli e sopracciglia neri, occhi castani, fronte scoperta, naso grosso, bocca grandetta, mento largo, viso ovale, colorito bruno rosso; come segno particolare, un grosso neo a destra del mento.
Nella fotografia in divisa, appare un tipico uomo risorgimentale, in stile Napoleone III, con baffi, mosca e pizzetto.
Giacomo    Gabriele, il 16 settembre 1858 ottenne il libretto di lavoro (è scritto in italiano e francese, risaliva a Carlo Felice!): sapeva leggere e scrivere, si sottoscriveva.
Sottrattosi alla campagna, iniziò l’attività di ferragliere:  ramo de’ fabbri che s’esercita in lavori minuti e in acconciare graticole, padelle e altri utensili così fatti – come si legge nel Dizionario delle arti e mestieri di Griselini e Fassadoni, Venezia, 1769.
Divenne un limatore e montatore di vaglia e lavorò per le ferrovie (dalla Strada Ferrata Torino-Cuneo alle Officine di Porta Susa a Torino), evidentemente con ottimi risultati, come si legge negli attestati del libretto (con zelo, puntualità e fedeltà). Nuova professione tecnica e non più agricola  in industria nuovissima, quella ferroviaria: da rurale a cittadino, con un notevole salto di qualità, una buona dose di coraggio e fiducia nel progresso.
Giacomo Gabriele si sposò con Maria Teresa Margherita Marocco,  nata a Torino il 31 agosto 1847, figlia di Francesco Marocco e di Camilla Bijno
Francesco Marocco, mio trisnonno, soldato del 4° Reggimento  di  Fanteria, morì il 25 luglio 1848 a Sommacampagna (VR), per ferite riportate in battaglia (Prima Guerra d’Indipendenza); con reale decreto, firmato da Vittorio Emanuele II e controfirmato dal Ministro della Guerra  Generale La Marmora, del 22 marzo 1852, fu assegnata all’orfana la pensione di guerra annua di Lire 175.
A neanche un anno, la mia bisnonna rimase senza il papà, troncato nelle giovanili speranze e caduto poco più che ventenne in una di quelle sanguinose battaglie combattute ripetutamente nella piana padana tra Lombardia e Veneto; battaglie che ispirarono ad Henry Dunant la fondazione della Croce Rossa, dopo l'esperienza stravolta vissuta a Solferino nel 1859, in cui si rese drammaticamente conto delle due facce della guerra: quella celebrata nei bollettini militari e quella misconosciuta del tragico e doloroso abbandono dei feriti e degli agonizzanti.   
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Dai grandi libri, dai grandi discorsi alle persone piccole, che insieme a tante altre ci hanno donato l’Italia. 

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